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San Francesco
“Fu davvero un trovatore – scrive di Francesco d’Assisi Gilbert Keith Chesterton – e lo fu fin nell’ultima agonia della sua ascesi. Fu un amante. Innamorato di Dio e, davvero e sinceramente, innamorato degli uomini – vocazione, questa, anche molto più rara”. Se raccontassimo la sua storia come quella di un trovatore e delle folli imprese compiute per una dama “non trovemmo più alcuna contraddizione tra il poeta che raccoglie fiori sotto il sole e colui che soffre una veglia gelida nella neve; tra chi loda le bellezze terrene e materiali, e però si priva di cibo; tra chi glorifica oro e porpora, e però si ricopre di stracci; tra chi cerca bramosamente una vita felice, ma ha anche una sete enorme di morte”.
Il saggio di Chesterton su San Francesco ripercorre la vita dell’assisiate cogliendo vari aspetti di una personalità sorprendente, che si evolve in alcune ben definite tappe, nell’incalzare vertiginoso di un assai breve e travagliato percorso. Il giovane figlio del benestante Pietro Bernardone non rinuncia a una vita agiata, a piacevoli compagnie, a vestiti eleganti. Significativo è però un episodio sul quale Chesterton si sofferma nelle prime pagine del suo saggio.
Un giorno, mentre vende i suoi preziosi tessuti al mercato, tutto preso dal suo lavoro, Francesco non dà prontamente retta ad un povero che gli chiedeva l’elemosina. Quando termina l’affare con il cliente, si accorge che il povero se ne è già andato. “Balzò via, allora, dalla sua postazione, lasciò tutte le balle di velluto e i ricami dietro di sé, senza darsene cura, corse per il mercato come una freccia scoccata da un arco. Sempre di corsa, affrontò il labirinto di strade strette e tortuose della cittadina cercando il suo mendicante, finché finalmente non lo trovò e lo sommerse, quel mendicante attonito, di denaro. Poi tornò in sé, parlò e giurò su Dio che per tutta la vita non avrebbe mai più rifiutato di aiutare un uomo povero”.
Alla giovinezza agiata seguono la guerra, la prigionia, la malattia; quindi (altro incontro particolarmente significativo, ricordato come tappa fondamentale dal Santo stesso, nel suo Testamento) l’incontro con il lebbroso, prima della ben nota brusca rottura del rapporto col padre, al quale restituisce anche i vestiti che indossa, sulla piazza di Assisi, alla presenza del Vescovo. Segue il tempo di un peregrinare scalzo, solitario e inquieto, durante il quale Francesco mendica cibo e vesti e si adopera per restaurare con mezzi assai poveri la chiesetta di San Damiano. Poi, “quando iniziò a fissare intensamente la parola ‘folle’, scritta a caratteri luminosi davanti a sé, quest’ultima iniziò a brillare e a cambiare”. Siamo infatti davanti a un vero ‘ribaltamento spirituale’, che l’autore del saggio così spiega: “Se un uomo… vedesse il mondo capovolto, con tutti gli alberi e le torri al contrario, come fossero riflessi in una pozzanghera, un effetto potrebbe essere in lui quello di enfatizzare l’idea di ‘dipendenza’. Esiste infatti un’etimologia latina che sottolinea come la parola ‘dipendente’ significhi ‘appeso’. Risulterebbe chiaro allora il testo scritturale che afferma che Dio ha appeso il mondo sul nulla… Mentre all’occhio comune la grande imponenza delle mura [di Assisi], delle fondamenta massicce, delle torri, dell’alta cittadella potevano rendere la città più sicura e più solida, nel momento in cui l’immagine è capovolta, la città appare disarmata e indifesa”.
È questo un ‘capovolgimento spirituale’, certo per il lettore sorprendente e paradossale, che può però gettar luce su altre tappe e aspetti della vita del Santo: la gioia immensa nella povertà estrema, la vocazione di Chiare e la dedizione a Dio delle sue prime consorelle, il grande seguito dell’Assisiate (dopo gli anni in cui il solo Bernardo e il canonico Pietro lo avevano capito e valorizzato). Di ritorno dal suo primo viaggio a Roma con i primi undici compagni di avventura (dove ottiene dal Papa Innocenzo III la prima approvazione orale alla sua Regola), Francesco è riconosciuto come una grande “luce sulla vita”: dalle autorità e dal popolo, dai ricchi e dalla povera gente.
Nelle pagine dedicate a Francesco “specchio di Cristo” l’autore nota che il Santo “è specchio di Cristo come la luna è specchio del sole. La luna è molto più piccola del sole, ma è molto più vicina a noi; pur essendo meno luminosa, è però possibile osservarla meglio. Esattamente allo stesso modo, San Francesco è più prossimo a noi, ed essendo un semplice uomo come noi risulta più comprensibile”. Considera poi, riflettendo sull’insegnamento di Gesù di porgere l’altra guancia, che “questo paradosso verrebbe perfettamente accettabile, quando fosse messo in bocca a Francesco che parla ai Francescani”, documentando poi l’affermazione con dei fatti. “Nessuno si sorprenderebbe – prosegue infatti Chesterton - se leggesse che frate Ginepro rincorse il ladro che gli aveva rubato il cappuccio, pregandolo di prendergli anche il saio, poiché così aveva ordinato Francesco. E tanto meno si stupirebbe di sentir narrare come il Santo avesse detto a un giovane nobile, che stava per essere ammesso tra i suoi compagni, di inseguire un bandito non per recuperare le scarpe rubate, ma per pregarlo di accettare in dono anche le calze”.
Altri capitoli del libro trattano dell’istituzione dell’Ordine Secolare Francescano, della missione dell’Assisiate in Terra Santa, delle stimmate impresse nella carne di Francesco (e della credibilità dei miracoli); infine del transito, avvenuto tra le arcate e i portici della Porziuncola, dove “calò un improvviso silenzio; e tutte le figure in saio restarono immobili, come statue di bronzo. Si era fermato quel grande cuore che non aveva avuto quiete finché non gli era stato permesso di tenere tra le mani il mondo intero”.
(Gregorio Curto – 2024-03-16)
Utente 26700 - 12 giorni fa
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Il canto di Micaela / Roberto Piumini ; illustrazioni di Alessandro Baronciani
Il canto di Micaela narra un’avventura che ha per protagonisti molti bambini, ma non mancano nello sviluppo dell’intreccio autorevoli figure di adulti, che sanno dare buoni suggerimenti, accompagnare e guidare i piccoli, dimostrarsi loro sinceri amici. In primo piano, e all’inizio della storia, si distinguono Lidia, alunna di terza elementare, e sua mamma Arianna, apprezzata violinista, appassionata di musica ma impegnatissima anche nella sua missione di genitrice. Quando infatti a Licia ed altri suoi compagni viene l’idea di costituire un coro, Arianna si trova nella impossibilità di dirigerlo, come avrebbe voluto fare, perché tutta presa da una nuova gravidanza. Un’anziana musicista in pensione, la signora Marianna Pinzani, si rende però disponibile a dare una mano, perché si possa realizzare la bella iniziativa dei bambini, dirigendo le prime prove del coro, prima in casa sua, poi in una sala della biblioteca Civica. Altri personaggi importanti nello sviluppo del racconto sono la piccola Micaela, compagna di classe di Licia, e sua mamma Mercedes, una peruviana emigrata in Italia, che ha trovato lavoro come badante presso l’anziana signora Ubaldi. Quando nasce Michele, il fratellino di Licia, il coro è composto già da sette coristi e Arianna inizia a dirigerlo, mentre la Pinzani continua ad essere una presenza utile e gradita: segue infatti i nuovi ingressi e rallegra ogni prova offrendo a tutti dolci squisiti.
Protagonisti rimangono sempre i bambini, che si danno da fare per incrementare il coro con altre voci, che dovranno cercare soprattutto tra i giovanissimi stranieri: soltanto questa scelta potrà infatti accordarsi con il nome di “Coro Arlecchino”, che piace tanto a tutti. Non mancheranno diverse asperità da superare, prima che il sogno si realizzi: come il muro eretto da una timorosa maestra della scuola, la cocciutaggine di un bambino italiano che non vede di buon occhio gli immigrati, gli impegni scolastici e sportivi che si aggravano verso la fine dell’anno scolastico. Il coro Arlecchino, arrivato a diciassette elementi, potrà tuttavia presto partecipare ad una rassegna programmata a Padova eseguendo tre canti, per lanciarsi poi ad eseguire da solo veri e propri concerti, cioè un intero spettacolo.
Il canto di Micaela è una storia senza clamorosi colpi di scena, ma è certo appassionante, sia nelle pagine che narrano dei successi e delle feste, che in quelle nelle quali emergono le asperità. Il cammino della piccola Micaela non è infatti certo tutto rose e fiori, né quello della sua mamma, specialmente quando alla signora Ubaldi viene diagnosticato il morbo di Alzheimer. Vi sono poi nel libro pagine interessanti, che narrano di alcune lezioni scolastiche, come quando i bambini sono chiamati in causa per dialogare “sulle differenze”, ad esempio tra televisione e radio o tra Italia e Perù. In altri capitoli troviamo mamma e figlia (o figlia e padre) che dialogano in intimità, come accade a Licia, quando il papà la accompagna in moto su un belvedere dal quale si domina tutta la città: là essi intrecciano un dialogo che verte su argomenti importanti e su ricordi di gesti teneri e affettuosi (tanto cari quando richiamano la prima infanzia) che a entrambi suscitano commozione e nostalgia.
Il libro è scorrevole e di piacevole lettura, adatto ai lettori dai nove anni in su, ricco di dialoghi, articolato in capitoli brevi, abbellito da diverse illustrazioni in bianco e nero.
(Gregorio Curto – 2024-02-20)
Utente 26700 - 1 mese fa
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Di cosa è fatta la speranza - Emmanuel Exitu
Avventurosa, feconda, densa di asperità la vita dell’inglese Cicely Saunders; e lei, protagonista di una storia entusiasmante e commovente, determinata, tenace, caparbia; ma anche versatile, umile, tenera, sempre pronta a rimettersi in gioco, attenta e docile ai suggerimenti che le offrono le circostanze, nelle quali viene via via a trovarsi. Il libro di Emmanuel Exitu, benché sia un romanzo e non una biografia, offre un ritratto autentico della Saunders, iniziando a presentarci la protagonista ventiseienne, impegnata come infermiera in un ospedale da campo, durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui Cicely fa il primo degli incontri che segnano la sua vita, prendendosi cura del capitano Williamson, un graduato suo connazionale, che ha dovuto subire l’amputazione di un braccio a seguito di una ferita incurabile. Nei lunghi anni di pace che seguono si snoda un cammino denso di asperità, di incontri, di fitta alternanza tra successi e insuccessi, speranze e delusioni, fino alle ultime pagine del libro, che ci presentano Cicely, nel 1968, laureata in medicina e responsabile di un hospice insolito e innovativo, per il quale riceve una laurea honoris causa dall’Università di Yale.
I primi conflitti nascono per la Saunders con le colleghe infermiere e con i familiari, specialmente i genitori: una madre ostinata nei suoi preconcetti e un padre rigido nel volere per la figlia una sistemazione conformista, consolidata da un lavoro sicuro e un buon partito per marito. Ma le aspirazioni di Cicely sono ben altre, benché non siano affatto chiare: andranno infatti chiarendosi strada facendo e la porteranno ad esercitare per qualche tempo il lavoro di assistente sociale (anche a causa di un forte mal di schiena che le preclude per qualche tempo la possibilità di assistere i pazienti in corsia), poi ad intraprendere gli studi universitari per conseguire la laurea in medicina, quindi ad accettare di lavorare alle dipendenze del prestigioso dottor Barret, infine ad aprire un hospice intitolato a Saint Christopher, superando mille difficoltà.
Grande sostegno, nell’impervio cammino, hanno offerto alla protagonista donne e uomini di ammirevole tenacia e pazienza, specialmente Rosetta, accompagnatrice dello scrittore Clive Staples Lewis, e suor Teresa, una religiosa dalla fede salda e sfrontata, che non esita a pregare Santa Brigida perché la sua squadra del cuore possa vincere un’importante competizione sportiva. Ancor più decisivi e commoventi sono poi gli incontri che Cicely ha con alcuni suoi pazienti, specialmente David, accompagnato all’ultimo respiro con pazienza e tenerezza infinite, in giorni imbiancati da una abbondante nevicata.
David ha fatto due respiri veloci e uno lunghissimo e poi un altro e un altro ancora, e poi espirando l’ha cercata con gli occhi lasciandosi andare mentre i polmoni collassavano con un suono piccolo, una specie fi fischio intermittente e leggerissimo, sembrava una risata. E lì, in quel momento, in quel respiro, hanno capito che stava succedendo, che stava morendo. Allora Cicely gli ha preso la mano calda e debole e lui era morto. E anche lei era morta, non respirava più.
Chi la osserva accanto ai malati delle corsie dell’ospedale non esita a dire che dei pazienti che ha preso più a cuore, come David, Cicely si è proprio innamorata, di un amore purissimo, verginale eppure carnale, e lei stessa riconosce questo. Quel che accade con David accadrà poi con Antoni, ricoverato nell’innovativo Saint Christopher. Chi trascorre in questa struttura i suoi ultimi giorni non vive nell’angoscia di un tempo perso, perché prossimo alla fine, ma ha conforto e speranza; sperimenta giorni pieni, nella sofferenza alleviata da cure palliative e in una compagnia che si alimenta di momenti di festa, sapori e profumi di cibi prelibati, conversazioni con i pazienti. Uno degli “ingredienti della speranza” che caratterizza il Saint Christopher sono infatti “infermieri e dottori che fanno una cosa mai fatta prima in medicina, si siedono sui letti delle persone e parlano con loro. Di niente e di tutto, dipende dai giorni. E mangiano biscotti, ma anche torte e crostate, che la cucina sforna a tutte le ore del giorno e della notte, perché la dottoressa Saunders è convinta che i dolci curino come le parole, e se un paziente sente la voglia di un dolce è giusto che l’hospice sia pronto a soddisfare la richiesta, a prescindere dall’ora indicata dalle lancette”.
L’hospice della Saunders è un posto dove “nessuno è solo… non è un posto dove si va a morire, ma è un posto dove si va a vivere fino all’ultimo istante con dignità”. In un ambiente siffatto ci si può perfino aprire alla contemplazione delle meraviglie della natura, come accade alla paziente Paula, che si spegne mentre stringe nella mano una palla di neve e osserva stupefatta i candidi fiocchi (ognuno diverso dall’altro) che volteggiano nell’aria prima di posarsi dolcemente al suolo.
(Gregorio Curto – 2024-02-10)
Utente 26700 - 2 mesi fa
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È Natale : fiabe e racconti / Davide Frasnelli, Francesco Maltarello
Ambientati in diversi luoghi e abitati da una grande varietà di tipi umani e di oggetti, suscitano tutti tenere emozioni o intense commozioni i racconti di È Natale, sgorgati dalla penna (e certo prima dalla mente e dal cuore) di Davide Frasnelli e Francesco Maltarello. Alcuni sono molto brevi, come L’appuntamento, nel quale una signora (forse anziana, che vive da sola) racconta la sua trepidazione per l’attesa di una visita. Si immagina di una donna, perché il racconto comprende i ricordi di visite precedenti, iniziando dal primo incontro: “Ricordo la prima volta che l’ho vista”. Il finale però, che non sveleremo per non togliere al lettore da sorpresa di scoprirlo da sé, sarà sorprendente, certamente diverso da quel che si sarà immaginato.
Altro racconto, anch’esso breve e con pochissimi personaggi (in realtà uno solo) è Memoria. Vi si narra di Dino, al quale piaceva “rovistare tra le vecchie cose”, perché “era come un ritrovare frammenti di memoria che altrimenti sarebbero andati perduti del tutto”. Grande è perciò la gioia di Dino quando nella cassapanca collocata nella sua soffitta ritrova “una lampada, un parallelepipedo di metallo con i vetri colorati ai quattro lati, uno sportellino in cui mettere la candela e una specie di sfiatatoio a forma di comignolo in cima. Sotto c’era una molla che, caricata, faceva suonare un carillon”. Dino la rimette in funzione: accende la candela e carica il carillon. Splendide le metafore del finale: “La vecchia musica, per niente arrugginita, riempì il silenzio della stanza. E Dino scese in casa, tenendo in mano la sua infanzia”.
Altri racconti, nei quali fanno un po’ da protagonisti l’amicizia, la solidarietà e la carità, sono più popolati. In uno di essi il taxista Brunetto prolunga la sua giornata lavorativa, proprio la vigilia di Natale, per alleviare le pene di una signora povera, che al termine del tragitto (è povera ma ospitale, con un gran cuore) lo invita a mangiare qualcosa nella “povera baracca di lamiera e cartoni dove abitava”. Brunetto accetta l’invito. I suoi familiari dovranno aspettarlo più a lungo, ma lo vedono poi tornare contento. Lo trovano “sorridente” specialmente i suoi bambini, che “gli corsero incontro e lo abbracciarono, arrampicandoglisi al collo”.
Diversi i personaggi anche dell’ultimo racconto, intitolato When the saints, protagonista il trombettista John, ormai anziano, che “camminava giù per la sessantacinquesima strada, come al solito intabarrato nel suo inseparabile cappotto”. John ricorda i bei tempi in cui la sua band riscuoteva grandi successi e gli amici che suonavano con lui. Ha perso i contatti con loro, solo di uno sa che ha terminato la sua vita terrena. Dopo aver vagato un po’ per la città all’Harris Pub, il locale nel quale suonava abitualmente, i ricordi si infoltiscono nella sua mente, specialmente quelli degli amici che salivano con lui sul palco. Riuscirà a ritrovarli? Dove mai potrà ritrovarli tutti e suonare nuovamente in una più ancora prestigiosa band?
(Gregorio Curto – 2023-11-27)
Utente 26700 - 3 mesi fa
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Maschi contro femmine - Silvia Vecchini
Giovanni, io narrante della vicenda, è un bambino di nove anni che frequenta una scuola nella quale è radicata una profonda separazione (e ostilità) tra maschi e femmine. Il due gruppi si fronteggiano in una gara a chi totalizza ogni settimana più punti (arrivando a scuola con più anticipo, prendendo i voti più belli, ma anche quelli più brutti, facendo più presenze o più assenze, posizionandosi come capofila all’entrata e all’uscita dalla classe…); vigono poi tre regole supreme: per i maschi “mai fare una cosa da femmina, mai scambiare più di due parole con una femmina, mai condividere niente con una femmina”… e naturalmente viceversa, se si è femmine, nei confronti dei maschi.
I due gruppi hanno perciò ben chiaro quali siano gli atteggiamenti e le attività riservati ai maschi e quali quelli riservati alle femmine… fino a quando Zoe, una nuova alunna arrivata ad anno scolastico già iniziato, non mette tutto in discussione: porta infatti un attrezzo che parrebbe riservato ai maschi (un vortex), ma in realtà piace molto anche alle femmine, che si rivelano anche perfettamente abili nel lanciarlo.
La vicenda ha una svolta decisiva quando accade un fatto increscioso nella scuola: una mattina alunni e docenti si trovano fuori dal cancello, che resta a lungo chiuso per il tardare del bidello Alfredo; il campo esterno all’edificio, attrezzato per la ricreazione, si presenta poi completamente distrutto: le porte per il gioco del calcio divelte, il terreno dissestato, una cisterna d’acqua rovesciata. I sospetti (dato che la Dirigenza della scuola aveva deciso di trasformare il campo-ricreazione in un giardino inglese con erba non calpestabile) ricadono, più che su ogni altro, sulle femmine più attive e i maschi più bellicosi, ma è chiaro che non si potranno prendere severi provvedimenti, fino a quando non saranno smascherati gli autori del misfatto. La maestra della classe di Giovanni e Zoe decide però (finalmente) di por fine alle ostilità tra maschi e femmine con una decisione storica: assegna a delle coppie, costituite tutte da un maschio e da una femmina, come compito a casa, lo svolgimento di una ricerca a tema libero. Giovanni e Zoe decidono di indagare “attorno al danneggiamento dello spazio antistante la scuola” (ma tengono segreto il loro titolo, fino al giorno in cui dovranno relazionare alla maestra e alla classe).
Il seguito del libro è un appassionante giallo, con soluzione a sorpresa. La conquista di tutti è però soprattutto la fine delle ostilità tra maschi e femmine, il nascere di una sincera diffusa cordialità nell’intera scuola, lo sbocciare di vere amicizie tra esponenti dei due gruppi un tempo in lotta, come accade tra Giovanni e Zoe.
Maschi contro femmine è un appassionante libro anzitutto per bambini e ragazzi, ma ha certo molto da insegnare anche ai grandi, specialmente se educatori, genitori o nonni.
(Gregorio Curto – 2024-01-05)
Utente 26700 - 3 mesi fa
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Il ponte di San Luis Rey - Thornton Wilder
“Venerdì 20 luglio, a mezzogiorno, il ponte più bello di tutto il Perù si ruppe e cinque viandanti precipitarono nel burrone sottostante… Alla cattedrale si celebrarono funerali solenni… Era alquanto strano che gli abitanti di Lima fossero rimasti così profondamente colpiti da quell’avvenimento, perché in quel paese catastrofi simili, che gli avvocati definivano scandalosamente ‘atti di Dio’, erano più che frequenti”. Questo il fatto, dal quale prende l’avvio il romanzo, che si sviluppa sull’indagine di Fra Ginepro, un piccolo francescano proveniente dal Nord Italia, che si domanda: “Perché mai è capitato proprio a quei cinque? Se c’è un disegno preciso alla base dell’universo, se c’è un piano nella vita degli uomini, certamente lo si può scoprire, misteriosamente recondito, in quelle vite così repentinamente troncate. O viviamo per caso, e per caso moriamo; o viviamo secondo un piano e secondo un piano moriamo”.
Chi siano le cinque persone vittime del crollo del ponte lo raccontano nel dettaglio le successive parti del libro, dedicate rispettivamente alla Marquesa de Montemayor, a Esteban, a Zio Pino. Nell’indagare sulla loro vita, Fra Ginepro mette in luce di ciascuna i tratti distintivi del carattere, le fissazioni, le eccentricità, i sentimenti, i legami affettivi. Della Marquesa vengono riportati ampi stralci di lettere che indirizza alla figlia Clara residente in Spagna, di Esteban lo strettissimo rapporto che ha con il fratello gemello Manuel, di Zio Pino la cura che si assume del piccolo Jaime, figlio dell’attrice Camila. Le vicende dei protagonisti sono intrecciate tra loro nelle diverse parti romanzo. Così accade per i giudizi su Camila che la Marquesa esprime nelle sue lettere; nel comparire spesso, a fianco della Marchesa o di Camila, del viceré Don Andres de Ribeira; nella figura della religiosa Madre Maria, badessa che educa Esteban e Manuel.
L’insuccesso di Fra Ginepro è sanzionato con una clamorosa condanna dello scritto pubblicato a conclusione della sua indagine; il romanzo si conclude però con un significativo incontro tra Camila e Madre Maria, che piangono l’una il proprio figlio, l’altra i gemelli che ha educato. “Abbiamo un giardino bellissimo, non trovate?” esordisce la Madre; “Verrete a trovarci spesso e un giorno conoscerete Sorella Juana, la nostra giardiniera”. Poi la sconsolata attrice racconta la sua travagliata storia, non senza frutto, perché così “il fiume in piena della disperazione di Camila – la disperazione solitaria che la accompagnava da quando era bambina – trovò riposo su quel polveroso e affettuoso grembo fra le rose e le fontane di Sorella Juana”.
Poco dopo Madre Maria riceve la visita di Clara, che esordisce con le parole “Mia madre era la Marquesa de Montemayor”, mostrandole l’ultima lettera ricevuta da lei. La badessa replica “Mi permettete di mostrarvi la mia opera?” e, poiché il sole era tramontato, “le fece strada con una lanterna, corridoio dopo corridoio. Dona Clara vide i vecchi e i giovani, gli ammalati e i ciechi, ma per lo più vide la vecchia stanca e gioiosa che la precedeva” e la congeda dicendole: “Quando tornerete in Spagna, se sentirete di qualcosa che potrebbe esserci di aiuto, mi scriverete una lettera… se non sarete troppo occupata?”.
Il ponte di San Luis Rey contiene anche splendide descrizioni, ricche di metafore. Così quella di una prima mattina:
L’aria era fresca e gradevole. La prima debole striscia di zaffiro cominciava ad apparire dietro le vette, e a oriente la stella del mattino scintillava con un ardore sempre più tenero. Un silenzio profondo ammantava gli edifici della fattoria e solo una sporadica brezza faceva sospirare l’erba.
A sera poi l’autore ritrae con poche pennellate l’agire degli uomini e delle donne, intuendone i sentimenti:
Era l’ora che il padre torna dai campi e si ferma a giocare nell’aia con il cane che gli salta addosso, tenendogli stretto il muso o rovesciandolo sulla schiena. Le giovinette cercavano la prima stella per esprimere un desiderio, e i ragazzi cominciavano ad aspettare impazienti la cena. Persino la madre si fermava per un attimo a far niente, sorridendo alla sua cara ed esasperante famiglia.
(Gregorio Curto – 2024-01-01)
Utente 26700 - 3 mesi fa
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I re del mondo, ovvero la Corona Ferrea rubata / Roberto Piumini, Gianni De Conno ; testi informativi Marilena Caimi, Enrica Meregalli
Correva l’anno 1805 e tutto era pronto per l’incoronazione di Napoleone a Re d’Italia. La cerimonia si sarebbe svolta la mattina del 23 maggio a Milano con la Corona Ferrea custodita nel duomo di Monza, quella con la quale erano stati incoronati altri re nei secoli passati, gioiello prestigioso più di ogni altro perché coniato nientemeno, secondo la tradizione, che con uno dei chiodi della crocifissione di Gesù di Nazaret.
Che fare se, a soli tre giorni dalla data fissata per la cerimonia, la corona sparisce? Recatisi per prelevarla dalla preziosa teca che la custodisce, il fabbriciere e l’arciprete del duomo di Monza si ritrovano più che mai sorpresi e in grande affanno. L’ispettore Sergiotto tuttavia, al quale viene affidato il caso, sa bene come muoversi, per almeno avviare le indagini, che lo porteranno a risolvere la spinosa questione. Il ladro sembra essere stato in possesso delle chiavi del locale che custodisce la Corona sparita, dato che non vi sono tracce di forzatura della serratura né degli infissi; ha lasciato però una significativa traccia del suo passaggio in un prezioso profumo assorbito dal tessuto nel quale era avvolto il gioiello. Passo dopo passo, Sergiotto dipana la matassa, passando dal titolare di un noto negozio di profumi a un nobile discendente dei Visconti, signori di Milano nel Rinascimento… fino a un insospettabile gruppo di bambini, che non hanno tuttavia alcuna colpa da condividere con chi ha sottratto la Corona al tesoro del duomo ed è stato poi a sua volta derubato.
La vicenda narrata è un giallo appassionante, dalle sequenze sempre rapide e sorprendenti, che si risolve con una allegra esaltazione dei poveri e dei piccoli e con una beffa a danno dei potenti. Napoleone vi è rappresentato come un vanaglorioso, che neppure si rende conto della beffa della quale è vittima. Solo pochi, appunto i semplici e i piccoli, risolvono il giallo, perché agli occhi dei ricchi la cerimonia dell’incoronazione si svolge “regolarmente” il 26 maggio (con soli tre giorni di ritardo, grazie ad uno stratagemma dell’arciprete e del fabbriciere, che trovano uno stratagemma per dare a Sergiotto altro tempo per le sue indagini).
Il libro ha eleganti illustrazioni a colori e una appendice saggistica che dà notizie storiche sulla Corona Ferrea. Tra le rocambolesche vicende dell’intreccio si leggono delicate descrizioni, come quella di una tarda sera in campagna. “Solo un velo di luce rimaneva in cielo. Brillavano sparse fiamme dei casolari e, a sud, il palazzo dei Visconti, con le luci accese, sembrava un castello incantato”. È un libro di sole 87 pagine (comprese quelle saggistiche dell’appendice) adatto ai ragazzi ma indubbiamente apprezzabile anche dagli adulti.
(Gregorio Curto – 2024-01-01)
Utente 26700 - 3 mesi fa
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Ali di farfalle / Giampiero Pizzol ; illustrazioni di Arcadio Lobato
L’originale vicenda narrata in Ali di farfalle inizia con l’anziano Noè ancora rinchiuso nella sua grande arca, ma già proiettato in una sorta di nuova creazione: cadono infatti le ultime gocce di una pioggia non più torrenziale, poi le acque si ritirano, appare uno stupendo arcobaleno e uomini e animali si apprestano a moltiplicarsi e a ripopolare il mondo. Noè è in ottimi rapporti con Dio: gli parla e può ascoltarlo e ben comprenderlo, anche quando si sente dire: “Un giorno, quando la storia del mondo sarà alla fine, Io pianterò un nuovo giardino a Oriente, un luogo tanto grande da ospitare ogni specie di uomini e animali. Tutti torneranno a vivere in pace come fu all’alba dei tempi: il leone giocherà con l’agnello e i viventi vivranno per sempre senza conoscere la morte”. Noè si compiace di questa bella notizia, ma un po’ anche si allarma quando Dio gli affida il compito di trasmetterla a tutti gli animali, concedendogli la facoltà di parlare con loro: “Tu stesso porta la notizia. Di’ loro che quando saranno morti la loro anima vivrà e un giorno entreranno tutti nel mio giardino perché nulla andrà perduto di quanto sulla terra ha respirato”.
Noè ringrazia Dio e si attiva subito per portare la bella notizia, ma nell’arca – ahimè – non c’è già più nessun animale: vede le groppe delle zebre che si allontanano, gli uccelli come puntini persi nel cielo, impronte di zoccoli e zampe lasciati dai tanti quadrupedi che si sono già slanciati a sgranchirsi le gambe in una corsa liberatoria. Qui inizia la travagliata ricerca del buon vecchio, che non dispera tuttavia di portare a compimento la missione che Dio gli ha affidato. Le tartarughe, con il loro procedere molto lento, sono infatti ancora abbastanza vicine per essere raggiunte. Noè prova ad intendersi con loro, ma incappa una raffica di spassosi equivoci:
-Sono contento che siate ancora qua! /-Sarà lei un gran baccalà!
-Non avete capito… /-A chi scimunito?!
-Signora tartaruga, sono Noè /-Chi è?
Impossibile non perdere la pazienza, o almeno la speranza di potersi servire delle tartarughe per fare arrivare agli altri animali la notizia di una vita riservata anche a loro nel nuovo Eden della fine dei tempi. Noè però non demorde e vedrà riaccendersi le sue speranze (seguite però sempre – ahimè – da amare delusioni) nell’abbordare dapprima un fringuello, poi un asino, poi oche e galline, quindi pecore, rane, cicogne elefanti. Infine appaiono a Noè, all’improvviso, imprevedibili e meravigliosi, come “frecce che dalla terra volavano verso il cielo per poi tornare in mille giri sulla terra… una miriade di piccoli fiori con le ali”. Saranno forse loro che permetteranno a Noè di compiere la missione affidatagli dal Creatore?
Ali di farfalle è un libro semplice, profondo, divertente, vivacizzato da alcune pagine scritte in poesia, come quella sull’arcobaleno del primo capitolo:
Era un arco colorato / da lasciare senza fiato: / rosso vivo e vellutato, / poi arancio un po’ sfumato / giallo oro e verde prato, / quindi azzurro delicato…
(Gregorio Curto – 2023-11-01)
Utente 26700 - 5 mesi fa
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Il mago dei numeri : un libro da leggere prima di addormentarsi, dedicato a chi ha paura della matematica / Hans Magnus Enzensberger ; illustrazioni e progetto grafico di Rotraut Susanne Berner ; traduzione di Enrico Ganni
Il mago dei numeri / Hans Magnus Enzensberger. Torino, Einaudi, 1997
Roberto è un ragazzetto infastidito dagli esercizi che, a scuola, gli assegna il professore di matematica, soprannominato Mandibola, mentre di notte è ossessionato da brutti sogni: gli capita ad esempio, di trovarsi su uno scivolo che non finisce mai, oppure vede una bicicletta con ventiquattro rapporti, che sul più bello si volatilizza, o ancora si imbatte in un grosso pesce che si appresta ad inghiottirlo. Una notte però fa il primo di una serie di sogni di diverso tenore: gli appare un personaggio strano, che si presenta come “mago dei numeri” e lo introduce progressivamente in un mondo affascinante e pieno di misteri. Inizia a presentargli il numero uno (1), poi gli fa sapere che gli antichi Romani non conoscevano lo zero (0)… e via via lo conquista parlandogli di frazioni, di numeri che hanno una infinità di decimali, di quelli che lui chiama numeri principi, numeri bonaccioni, numeri triangolari. Nel sogno della decima notte il mago mostra a Roberto un pentagono che avvolge una stella e lo invita contare i nodi, le superfici e le linnee che compaiono al suo interno, prima di invogliarlo ad eseguire operazioni difficili, che danno come risultato numeri con una imprevedibile successione di cifre dopo la virgola.
A volte Roberto si scoraggia e dice al mago che non ne può più, ma a quel punto si risveglia e, quando lo strano personaggio riapparirà in un altro sogno, il ragazzetto sarà pronto per riprendere il cammino. Nella dodicesima ed ultima notte, il mago rivela il proprio nome e introduce il suo allievo in un gran palazzo, dove dimorano altri maghi molto più illustri di lui, provenienti da ogni parte del mondo. Dopo avere attraversato vari locali, Roberto e la sua guida “entrarono in una sala che era la cosa più grande che Roberto avesse mai visto, più grande di una cattedrale e più grande di un palazzetto dello sport, e molto, molto più bella. Le pareti erano ornate di mosaici con disegni sempre diversi. Una grande scalinata portava verso l’alto, così in alto che non se ne vedeva la fine. Su una specie di largo gradino c’era un trono d’oro, sul quale però non c’era nessuno”. Alcuni dei personaggi che abitano il grande palazzo sono molto anziani, come il greco Pitagora, che Roberto apprende essere stato il matematico che ha trovato come misurare precisamente la circonferenza e la superficie delle grosse torte che si mangiano in quel lussuoso ambiente.
La realtà pone poi Roberto nuovamente di fronte al professor Mandibola e ai suoi non graditi problemi. Potrà ora il ragazzetto affrontarli e risolverli con un altro animo e con nuove strategie?
Il mago dei numeri è un piacevole libro di narrativa, ma affascina anzitutto proprio perché, usando termini che non si usano a scuola, introduce alle curiosità, ai segreti e ai misteri della matematica.
(Gregorio Curto – 2023-10-)
Utente 26700 - 5 mesi fa
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Ciò che inferno non è
In un breve arco di tempo (l’estate del 1993) e in un’unica città (Palermo) si svolge la vicenda narrata in Ciò che inferno non è, protagonista padre Pino Puglisi, chiamato scherzosamente dai suoi alunni 3P (soprannome che lui stesso non ritiene per nulla offensivo) e dai capi-mafia locali ’u parrinu.
A Palermo convivono fianco a fianco gli abitanti di due mondi: i benestanti dei quartieri eleganti e i disagiati di Brancaccio, in quartiere povero vessato dalla mafia. Don Pino è originario di Brancaccio, dove è tornato dopo alcuni anni, nei quali ha svolto il suo ministero sacerdotale altrove: insegna religione in un liceo ed impiega tutto il suo tempo e le sue forze, l’intelligenza e il cuore, per combattere le ingiustizie ed alleviare le pene della povera gente. Ha raccolto tanti bambini in un centro ricreativo chiamato Padre Nostro, dove i piccoli trovano ben altro che la semplice possibilità di giocare: possono infatti incontrare lui, don Pino, e - tramite lui – Gesù, un’amicizia, un conforto, un perdono insperato, un angolo di ‘ciò che inferno non è’.
Don Pino si batte inoltre perché a Brancaccio si possano costruire una scuola per gli adolescenti e un luogo di ritrovo e di formazione per gli adulti, utilizzando un vecchio palazzo, diventato da tempo il covo delle tresche dei mafiosi. “Da mesi sto cercando di farmi dare gli scantinati di questo palazzo. Sono del Comune, ma sono occupati e vengono usati per le cose peggiori” – confida a Federico, suo alunno, diciassettenne di una famiglia palermitana agiata. Degli abitanti di Brancaccio dice che vivono “come possono. C’è chi lavora in nero, se va bene, altrimenti contrabbando di sigarette, spaccio di droga, prostituzione… Molti sono agli arresti domiciliari, altri in carcere. Quasi tutti sono analfabeti, i bambini non vanno a scuola e imparano il lavoro dei genitori, qualunque sia. Il resto lo fa la strada”. Sembrerebbe un inferno, ma 3P ha ben chiaro che l’inferno non è dove, ma come sei: “Togli l’amore e avrai l’inferno… metti l‘amore e avrai ciò che inferno non è”, dice a Federico; e per questo, cioè per strappare dall’inferno chi poteva incontrare, lui stesso ha lottato fino al martirio: “Se nasci all’inferno hai bisogno di vedere almeno un frammento di ciò che inferno non è per concepire che esista altro. Per questo bisogna cominciare dai bambini”.
Un giorno don Pino invita Federico a venire a Brancaccio: potrà così dargli una mano a far giocare i bambini del Centro Padre Nostro. Federico accetta e pian piano – è lui stesso, nel romanzo, a narrare in prima persona le vicende che lo riguardano direttamente – viene travolto e conquistato dalla missione del suo insegnante di religione, fino a decidere di rinunciare al suo soggiorno-studio in Inghilterra (programmato per quell’estate del 1993), ad imbattersi nella diffidenza dei bambini del centro, a subire il furto del suo motorino e pesanti percosse dai nemici di Don Pino. ’U parrinu però non odia nessuno, neppure i mandanti o gli esecutori del delitto che porrà fine alla sua vita, ma non alla sua missione. Morirà infatti col sorriso sulle labbra, dopo avere mostrato a grandi e piccoli amore e dedizione incondizionati.
Le storie delle persone incontrate da 3P e da Federico si intrecciano in uno splendido drammatico arazzo… e sono le più varie e imprevedibili: le avventure del piccolo Francesco e di sua mamma; lo sconforto e le speranze della bambina con la bambola, che vuole raggiungere il papà ‘dove il mare tocca il cielo’ o ‘dove terminano i binari della ferrovia’; l’entusiasmo e la tenacia di Totò, che imparerà a suonare la chitarra di Manfredi, il fratello di Federico; il dramma di Giuseppe, che ruba le autoradio su commissione impostagli dal padre. Tra le giovani e le giovanissime ci sono la mamma di Francesco, che vuole un gran bene al suo bambino; Maria, aiutata in tutti i modi da don Pino perché smetta di prostituirsi; Serena, violentata e resa incinta da un mafioso; l’intraprendente e mite Lucia, regista dello spettacolo preparato per la festa del cinquantaseiesimo compleanno di 3P. Con tutti, ma come a ciascuno si addice, don Pino è amabile e risoluto. A Francesco dice un giorno che la solitudine che ha provato dopo aver preso a calci e ucciso un cane randagio è l’inferno: “l’inferno è tutte le volte che decidi di non amare o non puoi amare”. Poi gli suggerisce di chiedere perdono ‘a Gesù, e poi al cane’. “Francesco racconta del cane, e poi di quella volta che ha sputato al suo amico Antonio , di quando ha dato dei pugni a sua madre, ha rubato la bicicletta, ha bruciato due lucertole e la coda di un gatto, ha tirato le pietre a quelli dell’altra squadra e ha rotto la testa a un bambino”… e don Pino, dopo avergli chiesto ‘solo questo?’: “E io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Conclude poi, davanti allo stupore del bambino che gli chiede ‘Che hai fatto?’: “Io niente. Dio ha cancellato l’inferno. Quelle cose non sono mai esistite, cancellate”.
Federico è un poeta, innamorato del Petrarca, ma poi impererà ad apprezzare maggiormente Dante. La sua vena si esprime in alcuni componimenti (l’ultimo dedicato a Lucia), ma la poesia, nel romanzo, non è solo nei suoi versi, ma anche e soprattutto nelle mille metafore e similitudini che costellano la narrazione di D’Avenia, come quelle del mare, dei pensieri, della notte:
-Oggi il mare brilla così tanto: sembra che il sole gli abbia soffiato dentro
-Ma ci sono pensieri che non pensiamo, sono loro che pensano noi, come le parole delle canzoni che tornano in mente senza averle evocate
-La notte già inchiostra il mare e con calma accarezza l’immenso porto, le cui luci fanno eco alle prime stelle. Sembra che possa accadere qualunque cosa, una creatura uscire da quel liquido nero sotto forma di sirena, di tritone, di mostro marino.
(Gregorio Curto – 2023-09-07)
Utente 26700 - 7 mesi fa
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